In scena, da oggi fino al 18 settembre, al Silvano Toti Globe Theatre di Roma c'è "Pene d'amor perdute", commedia shakespeariana di cui Alvaro Piccardi ha curato oltre che la regia anche la traduzione e l'adattamento.
Il tempo - dice il regista - sembra essere il protagonista della pièce.
Per vincere su di lui e trionfare sulla morte, Ferdinando, re di Navarra (interpretato da Ruggero Cecchi), e i suoi tre amici, Biron (Stefano Patti), Longaville (Paolo Emanuele Quaranta) e Dumain (Daniele Battimo), decidono di costruire azioni ed opere che diano eternità ai loro gesti e alla loro storia. Giurano quindi e sottoscrivono solennemente un impegno con il quale per tre anni dedicheranno la loro vita alla contemplazione e allo studio, lontani dai piaceri della carne e dei futili divertimenti.
Ma il tempo della vita smentirà queste ipotesi eroiche. La Principessa di Francia (Giulia Grandinetti) e tre sue amiche, Rosalina (Lara Balbo), Maria (Valentina Bernardini) e Caterina (Martina Giordano), giungono a Navarra per una missione diplomatica e la loro presenza sconvolge i buoni propositi dei quattro protagonisti. Le quattro donne sono portatrici di un altro modo di intendere il tempo della vita, un modo dove l’attimo, proprio perché tale, merita di essere vissuto in fondo, e la vita possa acquistare così il senso pieno di un’avventura e di un tragitto. Il progetto degli uomini sarà destinato a fallire, ma sarà il tempo a scandire i termini della rivincita delle donne: costringeranno gli uomini rinsaviti ad attendere un anno di riflessione prima di concedersi a loro.
Questo è lo spazio in cui vive la commedia, che si manifesta attraverso il linguaggio. Un linguaggio fatto di schermaglie, di occhi di parole, di rebus inestricabili, di virtuosismi verbali. Non per niente “Pene d’amor perdute”, insieme a “Sogno di una notte di mezz’estate” e, in un certo modo, anche “Romeo e Giulietta” – testi già rappresentati nei mesi scorsi sul palco elisabettiano diretto da Gigi Proietti – fa parte dei cosiddetti “drammi eufuistici”, termine che indica proprio l’interesse per la parola ed il suo uso concettistico e manieristico, ma adattato ad uno scopo comunicativo, qui per lo più comico.
Dietro tutto ciò, dice Piccardi, si trova "una satira violenta che Shakespeare su finire del XVI secolo fa nei confronti di quegli intellettuali che fondano accademie o cenacoli letterari lontani dal respiro della vita e dal suo pulsare conflittuale e contraddittorio.
Questo linguaggio si specchia in un altro, quello che usano un gruppo di personaggi popolari, costretti a misurarsi con gli editti del sovrano. Il loro linguaggio, ricco di una comicità plebea irresistibile, suonerà come caricatura del linguaggio cortigiano.
Lo spettacolo vuole far esplodere tutti gli elementi di questa comicità. Insieme ai toni più sofisticati della commedia d’amore".